Come vuole la nostra
Costituzione, la crisi di governo chiama in causa il
Capo dello Stato e ne espande il ruolo oltre a quello di
garante-imparziale dei valori costituzionali, ponendogli in capo la
responsabilità di decisioni politiche determinanti per il nuovo assetto di
governo. Così Mattarella è chiamato a fare, disponendo di due poteri: il
potere di nomina del Presidente del consiglio (art. 92) ed il potere di
sciogliere anticipatamente il Parlamento senza aspettare la fine naturale della
legislatura (art. 88).
Ad un primo impatto,
la seconda opzione che conduce ad indire nuove consultazioni elettorali, appare
una soluzione legittima: se il referendum si è tradotto in uno scontro politico
sulla legittimazione o de-legittimazione del premier Renzi, questa via si
porrebbe in linea, infatti, con i tanti proclami anti-renziani che hanno
contribuito alla vittoria del NO.
Ma, a ben riflettere,
il fallimento del referendum ha complicato la questione: bloccate le modifiche
dell'assetto costituzionale, la posta in gioco che si pone alla ribalta è
la questione della legittimazione della volontà popolare.
Questione che nella
sostanza è al vaglio della Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi,
presumibilmente a gennaio, sulla legge elettorale entrata in vigore a luglio ma la cui effettiva applicazione era in qualche modo legata all’approvazione della
riforma elettorale.
Pur senza questa
aggravante della sovra-rappresentanza attribuita con l’Italicum ai partiti che
ottengono il 40% dei consensi, la questione della sovranità popolare si
configura fin da subito in presenza di un Senato rimasto tale e quale e che
continua ad essere eletto con la legge elettorale del Consultellum, riproducendo
la frammentazione del voto in un pluripartitismo non troppo distante dal
contestato modello della prima Repubblica. D'altra parte l'Italicum, con le sue
forzature sul sistema maggioritario per garantire in ogni circostanza una netta
maggioranza in Parlamento per chi ha un voto in più degli altri, resta la legge
in vigore per l'elezione esclusiva della Camera dei Deputati.
Si tratta di una
questione difficile da risolvere, appunto perché l'attuale sistema
elettorale italiano è un grossolano capriccio tecnico pronto a tradire l'espressione di voto degli
italiani, nell'impraticabilità di creare una chiara maggioranza con
le inevitabili conseguenze dell'ingovernabilità: come se questa fosse
l'abito irrinunciabile del nostro sistema politico.
Pertanto, i toni alti
dei sostenitori del "voto subito" non si possono più sentire: prima
urlano che l'Italicum è una legge fascista, poi invocano il governo
elettorale a cui si chiede unicamente di portare il Paese al voto con la legge
elettorale che c'è, pur con la consapevolezza dell'inevitabile prospettiva di
ingovernabilità. E' chiaro, allora, che dal loro punto di vista la sovranità
popolare diventa merce di scambio per lo scopo esclusivo della vittoria
elettorale.
Poi ci sono i partiti
del governo di scopo: ovvero, i partiti che più consapevolmente chiedono al
Capo dello Stato di istituire un governo allo scopo di realizzare la nuova
legge elettorale per poi rassegnare le dimissioni. Entro questa più
logica cornice, il Capo dello Stato avrebbe facoltà di scegliere tra un
governo politico, tecnico o istituzionale: certamente difficile sostenere la
sua eventuale scelta di chiedere lo sforzo a Renzi, proprio a fronte di un
risultato referendario caratterizzatosi alla stregua di una questione
personale.
Renzi a parte, il
governo di scopo nasconde però l'insidia dei tempi lungi dell'accordo tra
i partiti sulla legge elettorale: e qui il timing chiama in causa
l'esclusiva ed urgente responsabilità dei nostri rappresentanti politici.
A nulla può valere
l’alibi della Corte Costituzionale, che non è preposta a sciogliere il bandolo
della matassa della questione elettorale: al di là dei profili di
incostituzionalità rilevati e rilevabili, non è ammesso un giudizio preventivo su una causa non ancora sviluppata, ovvero su una legge non ancora applicata. La palla torni, dunque, al Parlamento.
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