venerdì 2 dicembre 2016

La contraddizione di Zagrebelsky - cita Rousseau per abiurare la Riforma costituzionale.



La contraddizione di Zagrebelsky - cita Rousseau per abiurare la Riforma costituzionale.

Cosa vogliamo? Resta questa la domanda a due giorni dal referendum. Ancora poche chiacchiere mediatiche e poi noi cittadini siamo chiamati al voto.

La riforma l’ha voluta il Parlamento e sono 30 anni che tutta la classe politica dice che bisogna passare dal bicameralismo paritario ad un sistema più semplificato. La polverizzazione della prima Repubblica aveva offerto una chance che, però, i nostri politici non hanno saputo cogliere: o meglio, tentativi sono stati fatti, ma la riforma che va bene a tutti non è mai stata partorita.

In settanta anni abbiamo avuto 63 governi: un’instabilità che ha condizionato la politica del nostro paese, o è stata la politica del nostro paese che ha condizionato l’instabilità dei nostri governi?

Ed è questa la sostanza della domanda che ho posto in premessa: una sostanza complessa che rende il senso stesso della nostra storia politico-istituzionale.
Le difficoltà, secondo il costituzionalista, non derivano dal bicameralismo perfetto, ma dal fatto che le forze politiche non sono d’accordo. “La radice di queste difficoltà è politica non istituzionale”, sostiene il costituzionalista.

Tant’è, diciamo noi: e quindi?

Il garantismo costituzionale che sostiene l’architettura della Carta costituzionale più bella del mondo, è finanche eccessivo per una ragione storica che noi tutti ormai conosciamo: lo spettro del fascismo aveva indotto i nostri padri costituenti a calcare sulle misure garantistiche con pesi e contrappesi pensati allo scopo di impedire un rafforzamento eccessivo del potere esecutivo.
Il pluralismo, la moltiplicazione dei centri di potere, la frammentazione delle funzioni, serviva a questo, a garantire il sacrosanto principio fondante di ogni democrazia: la partecipazione.

Ma il costituzionalista Zagrebelsky, e così anche ognuno di noi cittadini consapevoli e scolarizzati, dovremmo aver imparato che la democrazia è un ideale-limite: un modello a cui tendere pur senza possibilità di realizzarlo appieno.

E quando si parla di democrazia, il richiamo a Rousseau è d’obbligo: Zagrebelsky non omette di farlo, e lo ha fatto proprio in occasione del faccia a faccia con Renzi nella trasmissione condotta da Mentana andata in onda circa un mese fa su La 7: “Il popolo inglese ritiene di esser libero: si sbaglia di molto; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento. appena questi sono eletti, esso è schiavo , non è nulla”.

D’altronde, il massimo teorico della democrazia parlava della partecipazione diretta all’attività legislativa e, per questo, il concetto stesso di rappresentanza politica veniva trattato con sospetto: “L’unico modo per formare correttamente la volontà generale è quello della partecipazione all’attività legislativa di tutti i cittadini, come accadeva nella polis greca: l’idea che un popolo si dia rappresentanti che poi legiferano in suo nome è la negazione stessa della libertà” (J.J. Rousseau, Il Contratto sociale III, 15).

Ma, come dicevo sopra, la democrazia è un modello cui tendere, non un conseguimento.
Quindi i rappresentanti li abbiamo ed i partiti politici ne sono l’espressione concreta. E qui si apre una riflessione da cui viene chiaramente in luce la contraddizione di Zagrebelsky. Se, come dice lui
la radice delle difficoltà di tenuta dei governi italiani è proprio una difficoltà di natura politica non istituzionale, perché puntare a preservare la frammentazione politico-governativa?

La paura del rafforzamento dei poteri di governo è strumentale: la storia insegna che le derive autoritarie, semmai, si sono verificate laddove i governi erano deboli.

Allora il sospetto nasce spontaneo: non è che si vuole mantenere ad ogni costo l’ingovernabilità del paese per qualche oscuro fine?

Nel calcolo probabilistico dei fini possibili, risulta con logica matematica che il fine più probabile è quello di alimentare i fenomeni di corruzione: non adagiamoci sulle origini antropologiche della corruzione. Gli italiani non nascono corrotti e nelle pieghe della frammentazione dei centri di potere e di funzioni, di competenze e di attribuzioni, il germe italiano si replica.

Urge l’antidoto e sta a noi usarlo.

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